Quando alle 5.15 suona la sveglia, scatto come una molla. Giusto il tempo di prepararci, far eseplodere il mio deodorante roll-on e poi si parte, direzione Bryce Canyon, nello stato dello Utah, dove producono i tipici sacchi di tela.

Trattandosi di una tappa lunga, adottiamo la solita tecnica: parte il Penny, poi unica sosta con cambio guida e benzina, quindi mi metto alla guida io. Mentre guida Penny mi costringo a dormire, come un vero professionista della guida: ormai è un gesto tecnico quello dell’iPod e della mascherina.

Quando mi sveglio siamo già nel “caleidoscopio di colori” che è lo Utah: dune, costoni di roccia, roba che si sgretola ovunque, cespugli qua e là, zero essere viventi. Un treno chilometrico. Da qualche parte, forse, mormoni sparsi.
Paesaggio spettacolare, veramente, nessun segno di civiltà per miglia e miglia. Per fare benzina dobbiamo aspettare un bel po’ di uscite, perché son tutte “no service”.
Infatti in USA i distributori di benzina non sono sull’autostrada, ma devi uscire apposta, fare benza, e poi rientrare. Idiozia? Sì, però è così.

Finalmente riusciamo a fermarci per far benza, ne approfittiamo per la colazione. Io faccio la porcata, per ottimizzare tempi e prestazioni. Ho bisogno di una svegliata, devo guidare per 4 ore e passa, allora vai di RedBull. Coi Corn Flakes, però. Sapendo che avrei saltato il pranzo, vado di doppia porzione. Mmmh, che bontà.

Ripartiamo più carichi che mai, io ho pure comprato il nastro adesivo per riparare le All Star, basta, siamo a bolla, 4 ore passano facili, tra le solite cazzate, la radio FM che scompare e la AM che ci regala “A Wonderful World” e panorami mai visti prima, hanno un non so che di mistico.

Non so se vi è mai capitato di passare per uno stato dalla superficie di 210mila km^2 e solo 2.5 milioni di abitanti: non incontri anima viva, nemmeno di animali! Sabbia colorata e arbusti a perdita d’occhio, deserto d’umanità: questi luoghi non sono fatti per viverci ed esser intaccati, ma tra tracotanza e testardaggine, siamo arrivati fin qua. Tra l’altro becchiamo pure una giornata splendida.

C’è da fare su e giù per un po’, qualche bel curvone, uno stop per lavori in corso, con il camioncino con dietro scritto “Follow me” che ci guida lungo una normalissima strada a doppio senso, senza alcun operaio al lavoro, poi di nuovo salite e discese, tocchiamo quota 2300 metri circa (7500 piedi). Vabbè, arriviamo al Bryce, facciamo la tessera multiparco ed entriamo.

E qui si vede la tipica organizzazione americana: strade perfette, sentieri tracciati a regola d’arte, selvaggina salvaguardata da mille cartelli e poi lungo il parco sono proposti dei “punti di osservazione”. Questo ordine così spinto rompe un po’ le palle, è difficile scegliere di non seguire il percorso.

Partiamo dal punto di osservazione più vicino all’ingresso e ci incamminiamo. Stiamo camminando lungo un costone e sotto di noi si apre una vallata, macché, una voragine, fitta di costruzioni rocciose cesellate, lunghe lunghe e rossastre, che hanno la forma di quelle torrette di sabbia che fai al mare, quando fai colare la sabbia bagnata tra le dita. Solo che sono tante, alte e rosse. Mozzafiato.

Purtroppo c’è tanta gente, tutta concentrata nei punti di osservazione, io cerco di spostarmi un po’, cerco il sentiero alternativo, c’è davvero poco da muoversi in giro, ma comunque riesco a ritagliarmi il mio spazio di solitudine in mezzo alla natura. Silenzio, sole, alberi sporti oltre il bordo, per osservare meglio lo spettacolo. E poi il vuoto. Ah, quante domande affollano i miei pensieri, a non rispondermi solo il vento secco.

In un paio d’ore ci facciamo 2 miglia e qualcosa, sotto un sole a picco che non si sente tanto per via dell’arietta frizzante. Procediamo duri e puri a petto nudo, qualcuno stasera se ne pentirà (non io).
Riusciamo pure a misurare il diametro minimo del nostro orifizio anale: ad un certo punto devio e decido di andare lì, sì sì, proprio lì, giù dal sentierino ghiaioso su quelle rocce a strapiombo. Incautamente mi seguono anche gli altri e ci piazziamo per un autoscatto ricordo. Eccoci qui, tutti belli tesi, glutei stretti stretti e apnea.

Proseguiamo ammirati per un bel po’, c’è sempre qualcosa da fotografare, tra rocce caratteristiche, animali selvatici e alberi intrecciati. Alle 5 ci concediamo un pranzo frugale, a base di prugne secche… giuro. Poi ci imbarchiamo sulla navetta e torniamo all’auto, con la quale raggiungiamo il punto piùa sud del parco.

Si tratta del Rainbow Point, dal quale è possibile arrivare a piedi al Yovinca Point. Da questa terrazza si può osservare un amplissimo panorama. Oltre ai monti lontani, si intravede anche il New Mexico e l’inizio del Grand Canyon. Però se, come oggi, il cielo è limpido e l’aria tersa da una leggera brezza, se hai 12/10 e aguzzi la vista, allora lì infondo, laggiù sotto quella nuvoletta a forma di piccolo folletto, sì sì, proprio lì, beh puoi veder brillare la Madonnina. Uno spettacolo, parte il canto popolare…

Visto quello, visto quell’altro, stufi della massiccia presenza di turisti italioti, ripartiamo per raggiungere la civiltà. Durante il tragitto riportiamo alla mente le storie sulle ballerine di Las Vegas, le uniche in grado di risalire i pali della lap dance, senza mani, solo avvinghiando le gambe e risalendo come lumache. Comunque, la meta dovrebbe essere Torrey, con tappa a metà ad Escalante, intanto abbiamo superato le 4000 (quatromila) miglia di viaggio, in barba ai miscredenti! Andiamo ad Escalante perché è il centro abitato più grande nel raggio di 75 miglia, con ben 750 abitanti. Sì, proprio settecentocinquanta, senza altri zeri.

La strada è deserta, la lingua d’asfalto si insinua con dolcezza tra i fianchi delle montagne, siamo sempre intorno ai 2500 metri di quota, il sole splende su di noi, le mucche muccano, Andrea filma, e tutti ci sbrodoliamo in “oh che figata di posto”, o “guarda lì!” o ancora “spettacolo!”. Perché è così, come si fa a descrivere? Passi dentro le montagne, circondato da rocce su cui il tempo e gli agenti atmosferici hanno disegnato ghirigori e scritto storie intricatissime, romanzi d’amore, thriller, non lo so, una divina commedia in roccia scavata, con le mucche al pascolo a far da lettrici assorte.

Dopo Cannonville e altri centri abitati da pochi folli cotti dal sole e asciugati dal vento, arriviamo ad Escalante. Un po’ di incertezza e poi decidiamo di fermarci a mangiare al Cowboy Blues, una baracca all’inizio della città. Che poi città, con 750 abitanti è più che altro un condominio allargato. Un’insegna fuori annuncia “Best Maragaritas in Town”. Ma quale Town??

Allora, la regola dovrebbe essere: mai ordinare al ristorante quando si è affamati. Stavolta abbiamo proprio esagerato, o meglio, le porzioni ci hanno colto alla sprovvista. Partiamo con l’insalatina scondita, e va beh. Poi arrivano due bacinelle (giuro!) di nachos, da dividere per 5. Formaggio a profusione, carne di manzo e di pollo, arterie che iniziano a chiudersi.

Io poi ho ordinato lo “Utah Style BBQ bone-less pork rib”, ovvero barbeque di costine di maiale disossate, in stile Utah. E chi lo sapeva che lo stile Utha fosse sinonimo di caramellato? Madonna. Di contorno “baked potato”, che dovrebbero essere le patate al forno. No, è una monopatata al cartoccio, aperta a metà e con due mini panetti di burro appoggiati sopra. Arterie definitivamente chiuse e calorie alle stelle, recupero il pranzo saltato.

Con non so quali forze ci rimettiamo in viaggio verso Torrey, un po’ per avvicinarci ai parchi di domani, un po’per trovare un posto dove dormire, fare la cacca e la doccia, non necessariamente in quest’ordine. Lungo il tragitto, data la notte spettacolare, ci fermiamo a guardar le stelle.

Ai bordi della strada, a chissà quanti mila metri di quota, senza luci intorno, la luna è uno spicchio, soli contro la notte. Ma quante cazzo di stelle ci sono? Tantissime. Stelle cadenti a profusione, navi infuocate che solcano il mare della notte. Davvero figo. Una dura così tanto che riesco ad esprimere tre desideri e inventare qualche imprecazione per sottolinarne la maestosità.

Ululato in lontananza, via, si riparte, chissà se stanotte troveremo un posto in cui fermarci. Altimenti saranno le stelle a farci da coperta…

‘nuff said