Allora Las Vegas… Las Vegas, come fai a descrivere Las Vegas. Fai conto che arrivi dal deserto, fuori ci sono quei 43°C alle 20.30, quasi buio e il nulla totale fuori, solo soletto sulla lingua d’asfalto disegnata del mezzo della vallata arida. Prosegui così per un po’, poi all’improvviso: luci. Ma non una luce qua e là, no proprio un vastissimo tappeto luminoso.

Da lontano non vedi nulla se non questo insieme di luci, poi man mano che ti avvicini cominci a distinguere le puttanate colossali. Inizi a vedere il raggio di luce sparato verso il cielo dal Luxor, che ha la forma di una piramide di vetro nero. Poi la torre Stratosphere, i castelli delle fiabe, il colosseo, il Chrysler Building e la Statua della Libertà, per arrivare al Ponte di Rialto e la Tour Eiffel.

Dall’alto si può proprio vedere la netta separazione tra il deserto e questo denso concentrato di cagate galattiche.
Come ho già scritto abbiamo trovato posto in un’ampia suite di motel, ci sono 3 letti, tutti queen size, divisi in due stanze, e pure un megabagno. Davanti a noi l’hotel-casino di Hooters, che qui ogni hotel è anche casinò, poco più in là la piramide del Luxor col suo raggio luminoso lanciato nel vuoto siderale, in attesa di una risposta dal pianeta di Stargate.

Alle 22.30 siamo in strada, a piedi, pronti a girare sulla Strip, ovvero sul Las Vegas bulevard, la via dove si ammassano tutti principali casinò. Io sono cotto dal sole, svarionato e squattrinato, non sono nella condizione ideale, ma vabbè.
La città si rivela subito per quello che è: un enorme, gigantesco parco divertimento per adulti. C’è tutto, ma proprio tutto. Anche se qui la prostituzione è ancora illegale (anche se in altre contee del Nevada è legalizzata), ad ogni angolo c’è qualcuno che ti lascia dei cartoncini con numeri telefonici e immagine allegata delle escort sponsorizzate.

Come se non bastassero le wakkelle che si aggirano per strada. Già fa un caldo allucinante, già ho messo i pantaloni lunghi non so perché, poi ci si mette pure tutta questa carnazza esposta, tacchi alti e gonne girofiga ovunque. Che poi se c’è una cosa che proprio non sopporto sono le ragazze coi tacchi alti che non li sanno portare: NON LI METTERE CAZZO! Se poi devi camminare come una rincoglionita colpita dal morbo della mucca pazza, a cosa serve? L’eleganza della gamba lunga e del gluteo slanciato è subito vanificata dal calpesticcio ancheggiante. Dai su, fermati e levali, che fai più bella figura.

In giro c’è un sacco di gente, moltissima a piedi, meno sulle auto, ovviamente non mancano le limousine. Il primo casinò in cui entriamo è il New York New York, dove è riprodotta in “piccolo” un quartiere della Grande Mela, con tanto di grattacieli caratteristici, Statua della Libertà ecc… Anche all’interno il casinò è organizzato in vie e i negozi riproducono l’architettura degli edifici di Manhattan e dintorni. Quindi capite che quando dico “piccolo” intendo solo in scala, perché in realtà qui è tutto grande.

Siamo entrati al New York New York perché c’è una montagna russa che parte da dentro il casinò e poi esce e fa tutto il giro intorno. Spettacolare, il biglietto si fa a Coney Island ma costa 14 $, lasciamo perdere. Io e Marco ne approfittiamo per una fetta di pepperoni pizza, gli altri aspettano di arrivare al Bellagio per approfittare del buffet “all you can eat”.

Ci ributtiamo nel fiume di carnazza esposta, vitelloni e wakkelle, quelli che danno i biglietti da visita delle escort, i tizi che vendono acqua gelida (d’altra parte ci sono 100°F alle 23…) agli angoli dei cavalcavia che fungono da attraversamento pedonale e notiamo che oltre a questa umanità varia ci sono anche famigliole con bambini piccoli. E i cartelloni pubblicitari di celebrità con il lecca lecca in bocca, ci sono pure Katy Perry e Rihanna, nello stesso cartellone: allora ditelo dai, lo fate apposta!

Per arrivare al Bellagio c’è da salire su scale mobili e tapis-roulant. Assistiamo pure allo spettacolo super mega ultra pacchiano della fontanacon zamplilli, luci e musica di sottofondo. Dentro al casinò la situazione non è che sia migliore, la parola d’ordine è: eccesso. Come d’altra parte nel resto della città.

Il Bellagio è una mini città, con sterminate zone dedicate al gioco d’azzardo, poi vie coi negozi e tutto il resto. Purtroppo però il buffet ha chiuso da una mezzoretta, ci rimettiamo in marcia, sempre nello stesso clima.

Passiamo quindi al Cesar, super mega ultra iper extra pacchiano, con anche le volte dei soffitti dipinti come un cielo con qualche nuvola, e fuori una fontana di Trevi in dimensioni 1:1. Almeno dentro gli altri trovano di che nutrirsi.

Chiudiamo il giro con il Venetia, dove sono riprodotti vari monumenti della nostra Venezia. Di tutti quelli visti è il più sobrio, e ho detto tutto. Comunque a quest’ora (è quasi l’una), i tavoli sono praticamente vuoti, a parte quelli degli invasati che giocano a poker.

Decidiamo che è ora di casa e torniamo indietro. Si vede che il clima è cambiato: ci sono in giro un sacco di ubriachi persi, gente che cade, wakke in terra e tutto il resto. C’è pure un sosia di Elvis e due conciati da Nav’i, quelli di Avatar.

Arriviamo al motel alle 2.30, io sono cotto. Penso che alla fine Las Vegas non sia così male: voglio dire, è un enorme parco giochi, non puoi prenderlo sul serio. Devi andare lì con lo spirito giusto e le risorse per usufruire di tutti i divertimenti. Purtroppo io ero cotto e senza un quattrino, quindi di Las Vegas ho visto solo il lato caricaturale. E, comunque, non è il genere di divertimento che piace a me.

Dopo la notte nella suite del motel, la mattina parte subito in impennata con la visione delle poppe di Denise Milani (cercare su google) e la colazione dietro la “Pharmacy” CVS sulla Strip. Io esagero, latte, yogurt, cereali e biscotti, ma tanto prevedo già che si salterà il pranzo e ceneremo tardissimo.

Partiamo verso le nove inoltrate per la Death Valley, che è il luogo più caldo di tutto il nord America. Ci arriveremo a mezzogiorno del 16 agosto, il momento ideale, soprattutto per Penny che è sotto l’effetto della tachipirina.

Arriviamo proprio intorno a mezzogiorno, dopo aver attraversato un paesaggio desertico e arido. Passiamo anche attraverso ad un agglomerato di baracche, case basse di legno, bruttissime e trasandate, appoggiate a casaccio sulla terra secca, sembra che il vento le abbia spostate nella notte e rimescolate. Ma come ti viene in mente di vivere in un posto del genere? Mah.

Comunque, arrivati a Zebrisky Point o come diavolo si scrive, possiamo subito ammirare una vista delle distese di sale che compongono la Death Valley. Fa un caldo allucinante, secco ovviamente, ma fa caldissimo.

Ci dirigiamo quindi all’ufficio informazioni, dove ricevo per ben due volte commenti interessati sulla mia t-shirt, appena rimessa che fuori fa un caldo boia, mentre dentro c’è l’aria condizionata a tuono. Presa la cartina e il permesso, organiziamo la visita con spostamenti prevalentemente in auto, sia perché fa caldissimo, ma anche perché il parco è vastissimo (il più grade d’America, Alaska esclusa).

Prima tappa: bedwater. Trattasi di fonte d’acqua, completamente salata. Tra l’altro è pure il punto più basso degli USA, a 86 metri sotto il livello del mare. In realtà la parte con l’acqua è poco più di una pozza, il resto è semplicemente sale, sale a perdita d’occhio. Ci incamminiamo su una strada di sale battuto, bello bianco: sole a picco e riverbero dal terreno, sai come prendi fuoco? Poi il clima non è secco… nooo, appena. Se per caso inciampi e finisci nel sale accanto ti ritrovano mummificato in tempo zero, poi ti espongono nel museo, perfettamente conservato nei millenni dei millenni.

Quindi è il momento della Artist Drive, una strada panoramica che culmina all’Artist Palette, la tavolozza dell’artista, perché il colore predominante non è più solo il grigio salmastro, ma c’è anche qualche bava di verde e un po’ di magenta. Poi di nuovo in macchina verso il “campo da golf del diavolo”, distesa di zolle pietrificate su cui si sono formate aguzze creste di sale, del tipo che se scivoli ti tagli e contemporaneamente cospargi la ferita di sale. Manca solo qualcuno che ti spruzza il limone e poi sei al top.

Decidiamo di saltare la tappa al Golden Canyon, perché ci sarebbe da camminare per 3 km sotto il sole cocente. Fuori ci sono 120°F, non so se rendo l’idea!

Riprendiamo l’auto e andiamo verso Dante’s View, sulla cima di un monte da cui puoi osservare una buona fetta di vallata. Durante il viaggio (alla fine son quasi 60 km di curve e su e giù) dormono tutti, cotti dal sole, e si risvegliano solo alla fine, quando cominciano i tornanti e la pendenza si fa del 15%. L’Ammiraglia arranca ma arriviamo fino in fondo.

Non smetterò mai di ringraziare questi panorami vastissimi che abbiamo incontrato in questo viaggio. Vasti come il mare, ma con qualcosa che concentra lo sguardo e non lo lascia spaziare troppo indefinitivamente. Dall’alto si possono vedere le distese salate, tutte connesse da veri e propri letti di fiume secchi ricoperti di sale, e più dietro (ma molto, molto molto più dietro) le montagne che delimitano la vallata.

Queste visioni di spazi ampi e completamente inospitali, dove comunque qualcosa sopravvive, mi spiazzano sempre facendomi sentire minuscolo, ma hanno l’effetto benefico di restituirmi la giusta prospettiva di tutto: gli insuccessi, le piccole e grandi soddisfazioni, i dolori e le giorie, tutto insomma, riacquista la corretta proporzione. Improvvisamente è tutto lontano e piccolissimo, l’importanza è veramente relativa. Questo posto esiste ed esisterà indipendentemente dalla mia felicità o dalle mie pene e questa consapevolezza mi dà pace interiore. Non ha più senso disperarsi o, al contrario, eccedere nei festeggiamenti.

Vorrei riuscire a portare sempre con me questa consapevolezza, prendere le decisioni con in mente la giusta prospettiva, la visione dall’alto e gustare ogni emozione per quello che è senza troppi costrutti cerebrali.

Dante’s View, qualcuno ci ha visto l’inferno da qui, io ho trovato un ampio spazio in cui espandere il pensiero fuori da me. E ci sono arrivato in infradito, contro ogni pronostico. Se non fosse per questa massa di romani sbraitanti sarebbe stato perfetto. Fanculo!

Risaliamo in auto, visitiamo le dune pietrificate, rigorosamente senza fermarci, poi benza. Caldo folle, fuori c’è una delegazione di Hiunday tutte camuffate, probabilmente impegnate in una campagna di test sulle alte temperature.

Seguiamo le indicazioni per una città fantasma, c’è da fare un sacco di tornanti in mezzo alle montagne, saliamo da -86 m a 1600 circa, tra curve e “dip”, ovvero delle cunette molto divertenti, tipo montagne russe.
Quando arriviamo alla città fantasma rimaniamo delusi: di fianco c’è il campeggio, poi il museo e altra roba. Ma daiiii! Però emozione quando ci passa sopra un caccia militare che poi va a fare il pelo alle montagne. Cazzo figata! Ripartiamo gasati verso il motel, a quattro ore dalla città fantasma, così ci avviciniamo al Sequoia Park, che visitiamo domani.

La strada prosegue nel nulla completo, dune brulle con vegetazione cespuiosa a destra, roba uguale a sinistra. Fuori i tipici 110°F secchissimi. Ad un certo punto passiamo da Trona, questa sì che sembra una città fantasma!

Case di legno basse con finestre sbarrate, stazioni di servizio abbandonate (ma tipo 3 o 4) e mezze diroccate, c’è anche la scuola, tutta sbarrata e dietro un recinto di rete metallica. Fa impressione, brutta grigia e bassa, sembra un carcere. Dietro una fabbrica, tubi di metallo ovunque e una ferrovia con treni lunghi km abbandonati sui binari.

Che impressione! C’è della gente in giro ogni tanto. Ma come si fa a vivere in questi posti così desolati, dal clima più che inospitale, lontano da qualsiasi connessione con la civiltà, non c’è nulla, ma proprio nulla per centinaia di miglia. Boh. Mi piomba dentro un’inquietudine triste, il resto è lento avvicinamento a Portville e al suo Motel 6, tra le solite colline deserte e treni abbandonati.

Alle 20.30 cedo il passo al Penny, non so quante miglia ho accumulato oggi, so solo che abbiamo sfondato le 5500 miglia e ci avviciniamo velocemente alle 6000 e a Los Angeles!

‘nuff said