Attenzione, comunicazione di servizio. Questo post lo sto scrivendo su Notepad (aiuto) su un PC mezzo scarico dall’aeroporto internazionale di Delhi. Il testo del post si interromperà quando il PC o lo scrivente saranno completamente scarichi. Verranno aggiunte solo le immagini in post produzione.

Stamattina sveglia ore 7.15. Mi sono alzato e sono stato rispedito nel lettone da un rigurgitino di latticello, parzialmente prodotto dal mio stomaco durante la notte. Burp. Sono sceso in camicia, ho preso solo un caffè, sono tornato in stanza e ho provato a chiudere la valigia. Non è chiaro, perché la scienza ancora deve formulare una teoria convincente, come sia possibile che una valigia riempita e chiusa comodamente all’andata diventi improvvisamente inadeguata quando arriva il momento di chiuderla al ritorno. Il fenomeno dell’espansione entropica della valigia è tutt’ora oggetto di dibattito e di studi. La fenomenologia si applica tanto ai bagali a mano per permanenze di pochi giorni, tanto alle valigie multiple nei casi di permanenze prolungate, ovviamente con fattore di espansione proporzionale alla dimensione del bagaglio, al numero di bagagli e ai giorni di permanenza all’estero.
Nel mio caso sono riuscito a cavarmela come faccio di solito: butto dentro tutto come viene viene fino a riempire tutti i più piccoli interstizi e poi schiaccio bene sedendomici sopra. Se la cerniera non soffre non sono contento.  Non che abbia portato poi chissà che in valigia: 1 paio di pantaloni, 4 camicie, 2 t-shirt, 1 pullover, 6 mutande, 6 calze, poco altro.

Chiuso tutto, fatto tutto quello che dovevo fare, mi sono cambiato perché la panzona gonfia di gas della fermentazione mi impediva di portare la camicia senza rischiare di mettere a repentaglio l’incolumità delle persone che mi sedevano intorno, si sa mai che la cucitura di un bottone si strappi improvvisamente liberando un proiettile di plastica a Mach 8. Mi sono messo la t-shirt degli Avengià, un pullover, i miei pantaloni da viaggio e le Nike che comprai (passato remoto) quasi 10 anni fa a San Francisco.

Soffermiamoci sui pantaloni da viaggio. Li ho comprati al Decathlon, 15 € circa. Sono pantaloni da golf. Dunque sono un buon compromesso tra comodità, perché comunque a quanto pare il golf è uno sport, e stile perché sui campi da golf la gente vuole andarci ben vestito. Non solo: hanno le tasche profondissime, tipo il doppio del normale, il che è ottimo per essere sicuro che non caschino fuori le robe dalle tasche quando sei in giro. Infine, sono grigi, di un grigio topo antimacchia: puoi anche rovesciarti la salsiccia impancettata che dopo 2 minuti la macchia scompare e non la trovi più. Insomma, value for money.

Dopo aver dato 3 mani di aerografo alla tazza del cesso, dopo il check-out, finalmente partiamo per l’ufficio, un po’ più tardi degli altri giorni. Arrivando nella zona degli uffici incontriamo mandrie di pedoni che si dirigono verso il luogo di lavoro. Non essendoci molti marciapiedi degni di questo nome, e dato che quei pochi disponibili sono occupati da ambulanti, le mandrie si spostano camminando direttamente in mezzo alla strada, con grande scazzo del nostro pazientissimo autista che finalmente si decide a suonare violentemente il clacson. Mi viene in mente che anche qui si deve fare l’esame della patente, con prova pratica e tutto il resto. Mi immagino l’esame di teoria: suonare il clacson è sempre necessario: vero o falso? Vero. A quello di pratica non voglio nemmeno pensare, pensa a quei poveri neopatentanti incalzati dal clacson. Secondo me se non investi almeno un pedone o un ciclista durante la prova pratica non ti danno la patente. Mi piacerebbe vedere la google car a guida autonoma nel mezzo del traffico indiano…

Comunque, premio avvistamento del giorno: le sciure che spazzano gli spiazzi ricolmi di sabbia ai bordi della strada, davanti alle officine varie: spazzata, nube di sabbia, sabbia che si deposita, spazzata, nube di sabbia, sabbia che si deposita. Scope di saggina mosse da fantasmi di sabbia si muovono in dense nubi di sottili granelli, una versione distorta di Fantasia, senza inizio e senza fine.

In ufficio la mattinata scorre velocissimamente tra riunioni lampo, call internazionali, e diverse sessioni di murales su ceramica. Arrivata l’ora di pranzo ordiniamo quello che abbiamo mangiato il primo giorno per andare sul sicuro, e poi alle 2, dopo aver salutato tutti, ci siamo proiettati fuori dall’ufficio, pronti per andare a fare un giro a Delhi downton. Partiamo su due taxi, col nostro fidato autista e un collega indiano a scortarci, perché non sapremmo dove andare.

Il collega è stato molto gentile a volerci accompagnare. Non so se è una cosa che gli è stata caldamente raccomandata dal capo dell’ufficio (che, tra l’altro, assomiglia al padre di Dev in Master of None, sia come fisionomia, sia come tono di voce), ma comunque ha pensato e ripensato all’itinerario più volte nei giorni precedenti e si è preso lo sbattimento di portarci in giro, molto apprezzato.

Prima destinazione: la zona governativa con la casa del presidente il parlamento ecc. Per arrivarci abbiamo preso l’autostrada, solito concetto dei new jersey buttati in mezzo alla strada, i taxi pagano ad un gabbiotto giallo sul lato sbagliato della strada. Dentro al gabbiotto un tizio col pc, fuori dal gabbiotto un vecchio che attraverso un buco artigianale ricavato nella parete del gabbiotto si occupa di facilitare la transazione dato che il guidatore si trova dall’altra parte della strada, d’altra parte devono lavorare tutti. In autostrada perdo conoscenza per qualche minuto quindi non ho ben chiaro cosa accade, soliti ingorghi e blocchi vari. Improvvisamente (per me, che stavo dormendo e vengo svegliato dalla voce del nostro autista innominato) ci troviamo in una zona dell’India completamente diversa da quanto visto finora: strade pulite, marciapiedi, vegetazione curata, dove siamo? Nella zona dei consolati. C’è questo viale con controviale, giardini ai lati, sedi di ambasciate lussuosissime e torrette con militari dentro. L’autista innominato, che chiamerò Panjabi Pachuli (ci ha detto il nome e suonava più o meno così), ci racconta un po’ di cose. Io sono estasiato dal fatto che ci siano delle zone completamente libere dalla sabbia, è una rivelazione! Ci sono addirittura i semafori! Mi sembra incredibile.

Arriviamo alla casa presidenziale, che non è la casa bianca ma la casa rossa, in quanto qui tutti i monumenti sono fatti con sand stone, durata media prima di sgretolarsi e disperdersi nel vento: 2 anni e mezzo. La casa presidenziale con le due ali riservate ai ministeri è molto bella, ma difficile da percepire correttamente. C’è una nebbiolina sabbiosa sospesa che impedisce di fare foto nitide, e quando arriviamo Panjabi Pachuli ci fa di saltare fuori che lui continua a girare che non può fermarsi a parcheggiare. Fatta la legge, trovato l’inganno. Purtroppo c’è il cavillo: dopo 2 giri deve pagare una multa, quindi dobbiamo muoverci, fare turismo cogli l’attimo, foto in fretta e furia e poi risaltiamo in sulla nostra magica carrozza: Panjabi Pachuli, all’avventura.

Casa Presidenziale: in alto a desta il riflesso del nostro autista/angelo custode

Casa Presidenziale: in alto a desta il riflesso del nostro autista/angelo custode

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Percorriamo un km abbondante in un vialone con grandi prati ai lati e ci fermiamo all’India Gate, che era invisibile dalla casa del presidente a causa della foschia

Il viale verso il Delhi Gate 2

Il viale verso l’India Gate

Il viale verso il Delhi Gate

Devo dire bello: una zona molto tranquilla, verde, serena, gente rilassata sui prati e leggere, mangiare, conversare amabilmente. Una temperatura giusta, 24°C secchi, si sta bene. I clacson quasi non si sentono. Chiaramente appena metti piede fuori dall’auto vieni assalito da accattoni e ambulanti che ti stanno dietro per un po’. Tanti turisti, bel parco, qualche fontana e questo grande arco con i militari a far da guardia e a stare in posa per le foto coi turisti e così via.

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Risaliamo in auto, qualche chilometro ancora, Panjabi Pachuli rallenta per farci fare le foto e la gente dietro che scarica tutto quello che hanno nel clacson. Ma Panjabi è tranquillo, parla, ci illustra quello che avviene fuori dal finestrino, arriva quasi a fermarsi, incurante degli insulti e improperi ritmati a colpi di clacson.

Arriviamo al mausoleo di Humayun il secondo imperatore più importante dell’India. Il secondo, il primo chissà chi era. Sto qua veniva giù scappando dalla Persia per chissà quale casino. Io entro nel mausoleo con movenze fluide, tre passi, salto passeggiata aerea, atterraggio controllato, passo sincronizzato con la cancellata che viene giù ad intervalli regolari, pozione, oh no! Morto.

Mai giocare a Prince of Persia in bianco e nero!

Mai giocare a Prince of Persia in bianco e nero!

L’area del mausoleo è molto, come dire, sabbiosa. Sabbia rossa ovunque, tutti gli edifici del mausoleo sono sempre fatti di sand stone. C’è molto verde, tanti animali diversi: i falchi, che il collega indiano mi ha detto che non sono falchi ma “kites”, che dovrebbe essere il nibbio, poi ci sono i pappagalli, gli scoiattoli che sono scoiattoli per davvero, i cani selvatici che sembrano iene nere ben nutrite, i ragazzi che si imboscano a fare l’amore di nascosto (o almeno, così si dice), e poi la bestia più pericolosa di tutte: il turista occidentale. Facciamo un giro abbastanza lungo, entriamo nei diversi edifici che compongono il sito archeologico, il collega indiano ci fa un book fotografico. Fa caldo, ci saranno 26°, tiro su i pantaloni da viaggio fino al ginocchio, e me ne vado in giro con l’eleganza tipica che mi contraddistingue.

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nella nebbia un dubbio: è un nibbio?

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Con il collega indiano scambio qualche chiacchiera su macchine fotografiche e obiettivi e cazzate varie. Tra una balla e l’altra si fanno le 17, decidiamo di spostarci verso l’ultima meta: il Delhi Emporium. Premessa, ce ne hanno parlato così: è un posto molto bello, con tanti negozi dove i turisti possono comprare indisturbati pagando con carta di credito e senza bisogno di contrattare. Ho pensato, è una puttanata pazzesca.

Infatti. Arriviamo, è una zona con diversi “bazar” tutti uno accanto all’altro, vendono le solite robe che uno si immagina vendano in india e che gli indiani non comprano (me ne sono sincerato: ho chiesto al collega se avesse mai comprato cose del genere, no). Un po’ come quando vai a Venezia e vedi la coppia di tedeschi attempati che si comprano un centro tavola da 175 kg altro un metro, con un diametro di due, raffigurante una scena equestre realizzata in vetro di murano. Ma caro turista tedesco: ma perché? Perché? Cosa te ne fai? Dove lo metti? Ma come cazzo fai a pensare che sia un oggetto di gusto?

Niente, la zona è abbastanza “popolare”, ci sono diversi palazzi abbandonati e sostanzialmente abitati da famigliole di scimmie (finalmente vedo le scimmie!), mentre nella piazzetta ci sono diversi ambulanti che vivono lì per strada. Finalmente sperimento il famoso odere di cui tanto mi hanno parlato e che dovrebbe avere l’india

le scimmie

Monkey gone to Delhi Emporium

Ok, è vero, qui in qualche angolo c’è puzza, ma fino a qualche anno fa se capitavi in Stazione Centrale a Milano c’era lo stesso odore: questo non significa che tutta l’Italia puzza di piscio. Ci sono famiglie intere che vivono per strada con bambini piccoli che corrono qua e là giocando coi cuccioli di cane randagio, vecchi che puliscono e lucidano le scarpe ad altri vecchi, in un ciclo infinito di lucidatura ed impolveramento che non potrà mai essere interrotto, e cominciato dai padri dei loro padri. Nonostante siamo circondati da situazioni di vita ai margini, non mi sono mai sentito in pericolo e mai ho temuto rapine o cose del genere. Entriamo in un paio di negozi, il collega mi chiede se compro qualcosa, lo guardo e gli dico che non ne ho nessuna intenzione, sottovoce mi risponde you’re smart!

Siamo stanchi, salutiamo il collega e ci facciamo portare in aeroporto. In macchina, Panjabi Pachuli si lancia in autostrada, mette la quinta, raggiunge la soglia dei settanta orari, coda. Coda coda coda. Coda nera impestata. L’auto al minimo emette vibrazioni sorde e basse, sto  in groppa ad un enorme felino grigio che fa le fusa, ogni stop e ripartenza mi cullano dolcemente, i clacson e le sirene sono un concerto di ninna nanna, crollo in un sonno-trance fino al terminal dell’aeroporto. Il resto è storia di cibo, checkin, controlli di sicurezza, controlli di sicurezza, e attesa in quello che viene definito “Silent Airport” per via dell’assenza di annunci vocali, controlli di sicurezza e altri controlli di sicurezza. Al gate siamo coccolati dalla filodiffusione: musiche orientali con sopra gente che emette versi di agonia per evidenti crampi gastroenterinali. Io scrivo il blog, i colleghi si perdono nei pettegolezzi. Abbiamo modo di aggiungere due nuove specie al bestiario: un barbagianni bianco che vola silenziosamente ed indisturbato nell’aeroporto, le gran tope che si imbarcano sull’aereo per Mosca. Niente, si torna a casa, di già.

Playlist per la lettura:

  • Wake Up and Smell The Coffee, The Cranberries
  • Enter Sandman, Metallica
  • Daysleeper, R.E.M.
  • Dumb, Nirvana
  • Comfortably Numb, Pink Floyd
  • Gli Uccelli, Franco Battiato
  • La Canzone del Bosco, Punkreas
  • Rapace, Afterhours
  • Monkey Gone To Heaven, Pixies
  • Space monkey, Placebo
  • Aerials, System of a Down
  • Wish I could Fly, Roxette
  • Dream on, Depeche Mode
  • Just Breath, Pearl Jam

A presto India, per ora

’nuff said