Il pullman per Boston parte alle 3.15 di notte, o del mattino. 29 agosto 2010, 3.15 a.m., così recita il biglietto. Gli autobus partono dal Porth Authority, angolo tra l’ottava avenue e la quarantaduesima street (mi raccomando a non far confusione tra avenue e street!). Per salire sul pullman bisogna prima attendere a veri e propri “gate”, come all’aeroporto, solo che senza sedili, tutti svaccati sulle valigie e, tra l’altro, si consiglia di arrivare all’imbarco un’ora prima della partenza per prendersi i posti migliori. Ma sì, chi vuoi che ci sia alle 3.15 a.m. del 29/08/2010, o meglio, 08/29/2010, che da NY va a Boston! Figurati, sarà vuoto? Sì, col cazzo. Il pullman è, ovviamente, pieno.

Siamo in giro dalle 9 del mattino, abbian fatto giri e giretti, salutato amici e tutto il resto. Insomma, siamo già un po’ sfatti e sudaticci e ancora ci aspettano 5 ore di pullman per arrivare infine a Boston, dove abbiamo già prenotato la stanza all’Holiday Inn. Abbiam scelto di viaggiare di notte un po’ per risparmiare tempo, un po’ perché così risparmiamo una notte in albergo, potendo dormire in pullman. Sì, potendo.

Dunque il pullman è pieno, in fondo c’è un super ciccione che occupa quattro posti, e io mi becco l’unico sedile che ha il sistema per reclinare il sedile rotto. E che cazzo. Vabbè mi dico, in qualche modo riuscirò a dormire, in fondo sono stanco morto. Il tizio di fianco a me, però, non è della stessa idea. È un po’ agitato, soprattutto quando una coda di tre ore ci blocca in autostrada (ma chi cazzo si mette a far coda in agosto in mezzo alla freeway americana??). È un continuo di telefonate e messaggini, alzarsi per andare al cesso o a controllare la strada, prendi lo zaino, metti a posto lo zaino. Tra questo e lo schienale verticale avrò dormito si e no tre ore cumulative, e il mio osso sacro grida vendetta!

Beh, in qualche modo, alle 11 siamo a Boston, con l’unico desiderio di una doccia ristoratrice. Ci orientiamo un attimo e ci dirigiamo a piedi verso l’hotel. Veniamo accolti da un gabbiano bombardiere, che ci sgancia a distanza ravvicinata un carico di diarrea volatile. Una bella accoglienza! Ma sì dai, porta bene, no? No. All’hotel l’Indiano (nel senso di India) di poche parole che è al banco ci comunica senza quasi emettere verbo alcuno che la stanza non è pronta prima delle 15, attacchiamoci forte e tiriamo. Non ci resta che abbandonare lì le valigie e iniziare la visita della città, notando subito che il nostro olezzo tiene a distanza quei pochi cittadini dall’olfatto fino, solo gente con la puzza sotto il naso.

Boston è una città a misura d’uomo e lo stile è molto europeo, già nell’organizzazione delle strade che non sono più disposte nel solito reticolo di vie perpendicolari, ma un po’ a casaccio come da noi, ci sono pure delle curve!! Anche lo stile degli edifici è più vicino al nostro, così come la presenza di negozi e servizi disseminati qua e là, invece che raccolti nei distretti monotematici a cui ci hanno abituato le città americane. La meta iniziale è il Quincy Market, mercato al coperto di epoca “antica”, per quanto antico possa essere qualcosa visto negli USA, che ancora svolge codesta funzione. Son tre edifici bassi e lunghi, con piazzale intorno, pieni di negozi e ristoranti e paninari. Scegliamo un baracchino dal gusto orientale con piatti pasticciati, a base di pollame, spezie, riso e verdure. Purtroppo i piatti che ci vengon consegnati non assomigliano molto a quelli esposti in vetrina, però dai, ci sta. Soprattutto considerando che si tratta di un pranzo tardivo che deve coprire anche la colazione: ci tuffiamo con tutta la faccia nel vassoio di polistirolo a scompartimenti. Brrblrbbrrlrbrl, faccio le bolle nel brodino, semisvenuto per il sonno. Ci vuole una frutta, e un caffè. Detto fatto, che al Quincy Market c’è tutto.

Proseguiamo la visita verso il North End, che poi è il quartiere italiano. Si stanno preparando per la festa di Sant’Antonio, ci sono le bande, le bancarelle e tutto il resto. La lingua ufficiale e il calabrenglish, uno slang del tipo “no ca’ a stu ristoranti immu l’autru iornu, let’s go to that one!”. Coooool man. In giro c’è anche la casa di un certo eroe che ha avvisato qualcuno di qualcosa, dell’imminente avanzata di qualcun altro, cavalcando a mezzanotte fin chissà dove. Ingresso 3.50 $, è la casa esistente più antica di Boston e non ce ne può fregare di meno. Bye bye casa del 1680.

Propongo di dirigerci verso il parco cittadino, dove potrò riposare le mie stanche membra. Prima passiamo da un cimitero… ok che sono stanco morto, però dai, vediamo di non esagerare! Il parco in questione, comunque, è il più antico parco pubblico di tutti gli USA, che su scala europea vuol dire che l’hanno fatto l’altro ieri. Comunque c’è l’erba, l’ombra, una piscinetta bassa chiamata “stagno delle rane”, anche se dubito che le rane vivano in ambiente ricco di cloro, e abbastanza terriccio morbido a farmi da materasso. Ci sono anche gli onnipresenti scoiattoli, e chi se li fila ormai? Buonanotte. Cado in un sonno profondo e ricco di sogni, di cui ricordo pochissimo. So solo che c’era Katy “F.F.” Perry, e tanto mi basta.

Al risveglio sono ancora solo, che gli altri sono andati a visitare il quartiere dei ricchi nei dintorni e a spulciare librerie. Cuffie, iPod, computer: scrivo il post su New York, quello pieno di lettere mancanti e punteggiatura casuale. Errori che dovete perdonarmi, un po’ perché sono rincoglionito dal sonno, un po’ perché la luminosità del monitor è così bassa (e non regolabile, che Ubuntu fa i capricci!) che per vedere qualcosa ho messo una combinazione di colori con scritte bianche su fondo nero. Poi vabbè, ci metto del mio con gli errori e i ditoni sui tastini del 10 pollici. “Fat finger” si chiama. E poi che cazzo volete, si tratta di scrittura rapida, in extremis, nei ritagli di tempo e senza rilettura. Altro che labor limae, qui si deve andar giù duri con la mazza da muratore l’accetta, poi come viene viene, già è tanto se riuscite a capir qualcosa di quel delirio che vorrebbe essere l’imitazione di una statuina finemente cesellata, fatta col martello pneumatico. Tempo e strumenti adatti, queste sono le cose essenziali agli artisti per realizzare le loro opere. Ma io, essendo gente comune, mi accontento del PC buio e coi tasti piccoli e della scrittura lampo.

Alla fine in qualche modo si fa l’ora che tornano gli altri e tutti insieme appassionatamente ci dirigiamo all’albergo. Quando arriviamo sono le 19 passate, siam stati in giro per una trentina di ore consecutive, cosa vuoi che sia. Stavolta invece che l’indiano muto, ci accoglie un’americana piena di brio e dalla parlantina facile. Ci spiega un sacco di cose, apprezza la mia t-shirt “revenge of sushi” e ci dà le chiavi della stanza, santissima donna! All’Holiday Inn hanno fatto le cose in grande: non c’è la lavatrice, però c’è la palestra e l’aula computer nel seminterrato, la colazione è offerta è la stanza è grande, ben arredata e fornita di ogni confort. Gran goal. È l’ora della sacrosantissima doccia, per levare di dosso stanchezza e aroma di carogna.

All’uscita l’americanotta fa un nuovo commento sulla t-shirt con la mucca, la gallina e l’uovo pezzato, quella che anche la Benza ce l’ha uguale, e ci consiglia di andare al quartiere italiano, dove ci sono tanti ristoranti e musica. Musica? È un puttanaio. È una sagra di paese, quelle tipiche del sud, ma con un tocco americano per dimensioni e chiasso. E poi i ristoranti italiani costano troppo. Cosa vuoi fare, mangiare italiano a Boston? Ma dai! Abbiamo una missione, ultima scodella di Clam Chowder prima della partenza, ormai è una droga e, dato che non voglio assolutamente sapere come la fanno, non potrò riprodurla in Italia, dovrò aspettare il prossimo viaggio in USA per assaporarla ancora.

Ci fermiamo quindi in corrispondenza del Quincy Market, al Salty Dog, dove servono “il vero Clam Chowder del New England”. E vai! Ordiniamo pure un “coag” a testa, che si rivela essere un molluscone bivalve riempito con il pan grattato, tipo le nostre cappesante gratinate, ma più cicciotto. Con l’aggiunta di un sandwich a base di pesce e una birra, poi mettici le fottutissime tasse mai dichiarate nei prezzo, e poi, chiaro, la mancia, che loro dicono 15-20%… sì col cazzo, prendi il 10 e filare! Il conto arriva facile a 36 $ a testa. Ormai siamo a cortissimo di contanti, con la carta di Andrea che va a singhiozzi e quella di Penny bloccata, resta solo la mia.

Per digerire il pasto facciamo una passeggiata e incappiamo per caso nei preparativi dello spettacolo pirotecnico in cui culminano i festeggiamenti per Sant’Antonio. Ci sono dei tizi, di cui uno sovraobeso, cioè un obeso sovrappeso, che si aggirano con delle simil fiamme ossidriche su due campi da tennis riempiti zeppi di fuochi d’artificio, con tanto di micce per accensioni multiple. Aspettiamo un bel po’ prima che la banda con in testa il simulacro del santo raggiungano il luogo prescelto, lì ai campetti vicino al fiume, appena sotto al ponte, ma l’attesa è ben ripagata.

Pronti all’attacco d’arte? Prendete un emigrante, possibilmente del sud Italia, attaccato alle sue radici come non mai, che una volta all’anno si ingegna, con quella fantasia tipicamente italiana, su come celebrare le proprie origini, in concomitanza con la ricorrenza del Santo patrono. Fatto? Bene, ora prendete le risorse economiche e di spazio e il gusto per l’esagerazione tipiche del popolo americano. Fatto? Bene, ora unite tutto con molta colla vinilica e carta igienica e otterrete l’archetipo di italoamericano, il prototipo di una razza perfetta dedita all’esaltazione, il non plus ultra dello sfoggio, lo stato dell’arte dell’appariscenza. Il tutto si concretizza nei suddetti  due campi da tennis, più qualcos’altro sul prato, pieno di esplosivi e in quattro pazzi che accendono le micce corte, passandoci in mezzo.

Con tutta quella polvere da sparo puoi farci uno spettacolo di un’ora, un’ora e mezza. Ma no, l’italoamericano è una persona che cede facilmente ai suoi istinti esplosivi, in mezzora li fanno fuori tutti. I tizi passano e accendono una miccia per volta, poi aspettano lì, di fianco alle esplosioni, con alle spalle fontane colorate, sono degli eroi! Lo spettacolo inizia alle 23, quando arriva la banda col Santo in testa, e alle 23.30 è tutto finito. Noi in certi tratti non sappiamo se rimanere a bocca aperta o ridere a crepapelle per la quantità di fuochi sparati simultaneamente. Più spesso ridiamo a crepapelle. Comunque dai, è un bello spettacolo! I fuochi di Sant’Antonio, niente a che fare con la malattia… cioè, se malattia sono, si tratta di malattia mentale.

Alla mezza siamo in hotel e ci prepariamo ad affrontare l’ultima notte in USA, sveglia alle 7.30, ore 13.30 italiane, per avere a disposizione tutta la mattina e organizzare la partenza con calma, dopo aver fatto toccata e fuga nei luoghi più importanti che ancora ci mancano da visitare.

Di tempo infatti ce n’è poco, dovremo accontentarci di uno sguardo molto mirato e rapido, anche perché ci sono da comprare ancora alcuni regali e, soprattutto, io devo ancora comprare le All Star sostitutive. Utilizzeremo una strategia di visita della città in stile guerriglia lampo, con un obiettivo ben definito e una approfondita conoscenza del campo di battaglia, agendo poi con velocità e precisione chirurgica. Questa tecnica consente di risparmiare tempo nel momento del tour o dell’acquisto nel caso di shopping, ma comporta la necessità di pianificare preventivamente e studiare ogni dettaglio: Google e Google Maps sono le risorse più utilizzate. Definiamo quindi un itinerario che comprende Harvard, l’M.T.I., un Foot Locker, una libreria antica, il negozio di stronzate al Quincy Market, per poi tornare in hotel e quindi ripartire verso l’aeroporto. Sembra un buon piano.

La mattina facciamo checkout e chiediamo all’indiano muto se possiamo stampare i biglietti dell’aereo. Senza dire una parola, ci spiega con quella sua cordialità un po’ secca, che al seminterrato c’è la stampante, possiamo usare il nostro laptop oppure i computer forniti da loro. Perfetto. Dopo aver litigato un po’ con la stampante, lasciamo giù le valige in reception e ci dirigiamo alla metro, che ieri Google Maps ci ha detto che dobbiam prender quella lì e noi ci fidiamo, che tutti si fidano di Google.

La metro di Boston è, come ovvio, la più antica degli U.S.A., datata 1897. È formata da quattro linee: verde, rossa, arancione e blu. La verde è triforcuta e tutto lo schema ricorda quello della metro di Milano, con l’arancione al posto della gialla, mi sta già simpatica. Il simbolo, però, invece che una M di Metro è una T di… Tabacchi? o Tacchini, come il Sergio? Boh, forse Tube. Può essere, non ho indagato. Ovviamente c’è da fare il biglietto e ci dirigiamo sicuri verso la macchinetta automatica, dato che i bigliettai in carne ed ossa non esistono.

Qua rimaniamo un po’ spiazzati: noi vogliamo far solo un paio di biglietti, non l’abbonamento o il giornaliero, eppure la macchinetta ci propone di comprare la carta magnetica, da ricare con un importo prestabilito o uno deciso da noi. In effetti tutto intorno ci sono delle schede magnetiche appoggiate qua e là, sembrano abbandonate, però a me non va di fare la tesserina se non serve. Rimaniamo un po’ con lo sguardo a punto interrogativo e la bocca semi aperta, del tipo “eeehhhhh… mmmmhhh… boh?”. Fortunatamente lì vicino c’è un’impiegata delle metro pronta a darci una mano. Le spieghiamo che vogliamo far solo 3 o 4 viaggi singoli, non un giornaliero o quel che è, e lei ci dice che abbiamo bisogno comunque di una di quelle tessere magnetiche abbandonate negli angoli, e che possiamo prendere direttamente proprio una di quelle, che son lì apposta. Ah, ecco, però non si capiva.

Poi inizia a spiegarci come ricaricare la tessera, spiegandoci tutti i passaggi uno alla volta, con frasi estremamente semplici e brevi, parlando lentamente e con un tono un po’ pedante, enfatizzando con gesti delle mani e scandendo bene le parole, come si farebbe con i bambini, o con gli alieni: “noi amici, noi venire in pace”. Ci ha preso per deficienti, sarà che la nostra espressione di prima davanti alle macchinette deve averla colpita. Però è molto gentile: la prima tessera ce la carica lei, nel senso che fa tutti i passaggi uno alla volta, poi lascia che noi ci ricarichiamo le altre e, ad ogni passaggio, ci anticipa rispiegando come fare. Estremamente gentile, ma ci ha presi per prila. Amen.

Fatte le tessere ci spiega anche come andare ad Harvard e dove cambiare, ma si affretta subito a dirci che al cambio non dobbiamo uscir dai cancelli, che sennò poi dobbiamo ripagare. Sì, ci ha preso proprio per rincoglioniti.

Comunque, la metro arriva: è spaziosa e ha i sedili rivestiti in tessuto, un po’ alla londinese. Con la differenza che la metro londinese è claustrofobica e i sedili sono inutilmente ingombranti e spugnosi, con un effetto anti igienico assicurato. Qui invece è più spazioso, i sedili son normali e in stazione non fa il caldo che fa, ad esempio, nelle stazioni di New York.

In breve siamo ad Harvard, la metro ferma proprio sotto l’ingresso del campus, che è fatto di edifici bassi, di mattoncini rossi. Harvard è famosa per la scuola di legge, e in generale l’immagine di Boston è legata al mondo dell’avvocateria. Basta vedere serie TV come Ally McBeal o, appunto, Boston Legal. Facciamo un giretto e notiamo i gruppi in gita, guidati da studenti, proprio come avevamo fatto noi a Yale. Ma ti ricordi? Sembra sia passata una vita! “Ti ricordi quella volta che anche noi a Yale avevamo fatto il tour guidato?” “sì, cos’era, il 2006? 2005? non mi ricordo!”

C’è anche un giapponese che spiega qualcosa ad altri giapponesi (familiari in visita?), ma lo fa con una vocina stridula e una mimica ridicola al limite dell’istigazione alla lapidazione. Per evitare di commettere atti efferati e tenendo sempre d’occhio l’orologio, decidiamo che è ora di ripartire.

Riprendiamo la metro, la Rossa, direzione Sesto 1° Maggio FM e scendiamo in Duomo. Sì, vi piacerebbe! No. Andiamo in direzione “inbound” e scendiamo alla fermata del M.I.T., che non mi ricordo come si chiama. Non è chiarissimo dove sia il campus principale, cerchiamo un po’ sulla mappa, ed ecco che si ferma un tizio e, di sua spontanea iniziativa, ci chiede se abbiamo bisogno d’aiuto e ci spiega dove andare. Gli Americani son così: se non cerchi di metterli sotto con una Mercury Grand Marquis o se non gli parcheggi “troppo” vicino, son tutti pronti a darti informazioni, attaccar bottone per strada e così via. Però basta una minchiata e ti mangiano la faccia. Sono un po’ esagerati anche in questo, o super cordiali o mega stronzi, non sembra esserci una via di mezzo.

Ok, lo so, non bisognerebbe generalizzare. Ma in America vale, in America la gaussiana è a campana larghissima e molto smussata, quindi, con buonissima approssimazione, vale generalizzare. Cazzo c’entra ora la gaussiana? Beh, mi sembrava azzeccata un po’ di terminologia scientifica dato che siamo davanti al M.I.T., che non è il Ministero Italiano dei Trasporti, ma il Massastun… no, Massassuchen… no, Massticass… uff… Massachussets! sì, Massachussets Institut of Technology, opportunamente detto em-ài-tì, per evvitare di annodarsi la lingua ogni volta. I dipartimenti scientifici si riconoscono tutti, in tutto il mondo: edifici squadrati con finestre senza davanzali, possibilmente tutti grigi. Oppure hangar, vedi ingegneria in Bovisa. Qui però devono aver sbagliato qualcosa, c’è un edificio “strano”, fuori dal comune, che va bene al campus di Architettura o Design, non certo qui. Probabilmente è famoso e l’avete pure già visto, per metà sembra un edificio cubista, in cui il palazzo pare essere stato scomposto in tanti cubotti e poi ricomposto a caso. Dietro invece ci sono forme cilindriche tutte arrotolate su se stesse, come il tubo di cartone al centro della carta igienica, però colorato di bianco e giallo. Facciamo le foto e subito un poliziotto in vena di far quattro chiacchiere ci chiede perché stiam lì ad ammirare quegli “ugly buildings”. Caro poliziotto testa quadra americanotto, non è che sono ugly, son semplicemente strani. Lo so che tu preferisci la tua baracca 5 locali in compensato e polistirolo, col giardino e il barbeque, però su dai, fai il bravo e torna a contemplare il vuoto.

Anche al M.I.T. è toccata e fuga, non abbiamo tempo da perdere. Qui non ci sono tour guidati, ma passeggiando ci accorgiamo che c’è la piscina interna, 6 o 7 corsie, da 25 metri, l’acqua piatta, senza nemmeno una grinza… che voglia. Resto un po’ appiccicato al vetro con lo sguardo perso, ma dura poco, che dobbiamo già andare. Di nuovo sulla rossa, sempre in direzione “inbound”, scendiamo a Downtown Cross, poco dopo il parco, andiamo verso via Washinghton dove ci sono tutti i negozi delle marche più importanti. Passiamo ad un supermercato CVS, c’è giusto il tempo per comprare burro d’arachidi e marshmallow, da portare in dono alle popolazioni italiche, come i remagi a gesù bambino, manca solo la mirra (“usata dai Re Magi e nelle imbalsamazioni” cit.), con la b però. A me, comunque, quelle robacce dolci non piacciono. Poi il burro d’arachidi mi dà proprio fastidio, lo sento tra i denti anche dopo essermeli lavati e aver fatto i gargarismi.

Comunque, arrivati a Washinghton strett ci separiamo, optando per una strategia a due fronti, avendo infatti due obiettivi primari ben differenziati: io scarpe, gli altri libri. Definiamo il punto di incontro e sincronizziamo gli orologi, quindi partiamo in missione.

Dato che io riesco ad acquisire il bersaglio in tempi brevi, mi concedo anche un’azione diversiva, con visita ad una libreria per pisciatina strategica, dato che allo Starbucks c’è troppa coda.

Il resto è tutto da programma: Quncy Market per le stronzate, ritorno all’Holiday Inn, con l’imperscrutabile Indiano che ci riconsegna i bagagli e ci saluta con un cenno della mano. Poi metro fino all’aeroporto e pulmino gratuito fino al terminal. Capito? A Boston con 1.70 $ di metro sei in aeroporto, altro che 11 euro di Malpensa express o pullman da stazione centrale per Linate. Dai “uomo grande formica”, tu e la sindachessa invece che levare i tram dal centro di Milano e far quadrare i conti con l’ecopass, potreste far qualcosa di serio che poi c’è l’Expo e non mi va di farmi prendere per il culo dal mondo intero? Eh? Dai, su! Svegliaaaa!

A Boston facciamo tutta la  pedantissima trafila per le noiosissime questioni di sicurezza, si sa mai che hai una bomba nelle mutande… ah già, stava succedendo per davvero! Però non c’è il body scanner, semplicemente c’è la fila, fai vedere i liquidi, togli le scarpe, la cintura e l’eventuale felpa, passi al metal-detector e hai finito. Tranne il Penny: a lui lo fermano sempre per controlli aggiuntivi, a Boston hanno controllato che non avesse tracce di esplosivo sugli indumenti! Forse è per via della vuvuzela in valigia? Sì, è riuscito a riportarla indietro, roba da non credere.

Purtroppo stavolta l’aereo oltre ad essere comodo ha anche i sedili con lo schermo integrato e io non posso fare a meno di guardare due film (Kick-ass e Iron Man 2), guardare due puntate dei Simpson (una non l’avevo mai vista!) e fare una partita a Space invader. Occhi a palla dal decollo all’atterraggio. Poi abbiamo anche la coincidenza al pelo a Parigi, scendiamo, corriamo in quel cazzo di aeroporto inutilmente troppo lungo, poi una tizia ci ferma che c’è un passaggio chiuso, ci urla in francese di seguirla, fai tutto il giro, di nuovo i fottutissimi controlli, tra un po’ ci manca il guanto in lattice e una tastatina alla prostata, così, giusto per controllare che sia tutto ok anche lì e, finalmente, l’aereo per Linate. Ci imbarchiamo per ultimi, ma tanto l’aereo è vuoto. All’arrivo un po’ di ansia per la valigia nella stiva, poi abbracci e baci con Pritti e V che son venute a prenderci e, soprattutto, un cazzo di caffè al bar che, anche se lo prendi lungo (e comunque no), sta lo stesso in una tazzina e non hai bisogno di una vasca per contenerlo. Grazie.

E così abbiamo chiuso il cerchio, tornando al punto di partenza. Posizione iniziale  meno posizione finale uguale a zero. Sembra incredibile ma è un viaggio a spostamento nullo. E il tempo? Quanto tempo è passato? E chi può dirlo? Poi il tempo è un concetto così superato, non va più di moda già da quella volta che Einstein aveva tirato fuori quella roba della relatività. Il tempo, figurati, ormai si sa che non esiste. Non è mica che il tempo scorre, è come i km sulle strade, se stai fermo non passano, sei tu che ti ci devi muover dentro.

Quindi spostamento nullo e tempo indefinito, ma esperienze? Beh quelle tante. Tantissime. Ho imparato un sacco di cose, tante sull’America, su come si affrontano i viaggi lunghi, questioni pratiche e di vita comune. Ma ho anche imparato tante cose sui miei compagni di viaggio, sull’infanzia priva di cartoni animati fondamentali del Penny e, soprattutto, su di me.

Ho imparato che mi piace scrivere, più di quanto mi piacesse prima, anche così, arrangiandomi con poco. E mi piace viaggiare, più di ogni altra cosa, più del caffè buono, del mangiar bene, del dormire a lungo e del fare sesso. (Quasi) Tutte cose a cui, infatti, ho rinunciato a (quasi) cuor leggero in questo mese, proprio perché viaggiare, o meglio, viaggiare come abbiamo fatto noi, è davvero molto soddisfacente. Certo, c’era anche la consapevolezza che l’astinenza sarebbe prima o poi finita, però comunque… E ora che sono tornato indietro e ho ritrovato le cose in sospeso ad aspettarmi, tutte quelle cose che speravo di concludere prima di partire, tra cui (ricordiamolo) una tesi e una conseguente laurea specialistica, beh… è ora di riprendere la vita di prima. Non proprio la stessa, perché alla fine, come già avevo cominciato a capire durante il viaggio, sono tornato cambiato. E il Jeby che è arrivato è diverso da quello che è partito, non di tanto, quel po’ che basta a vedere che, da vicino, qualcosa è differente, una roba che proprio quasi non si nota, ma appena la vedi ti rimane impressa e non puoi più fare a meno di notarla.

E non è solo questione di riprendere le abitudini, come quando da piccolo ti fai tre mesi selvaggi al mare e poi torni e non ti ricordi più come si tiene in mano la penna e, ancora peggio, come cazzo si scrive quella merda di  “H” maiuscola in corsivo. Sì ok, ieri ho percorso la via tutta in seconda e al semaforo ho frenato e spento la macchina perché non mi ricordavo dell’esistenza della frizione, però non è solo questo. È cambiato qualcosa, i miei interessi son leggermente differenti (tipo, oggi mi son perso il primo evento in diretta web di zio Steve che presenta roba colorata che fa musica, una volta piuttosto disdicevo gli appuntamenti, stavolta stavo proprio dormendo), e sento che, in generale, si è chiuso un ciclo, ancora prima che se ne chiuda un altro che è quello della laurea. Forse è finita finalmente l’adolescenza?? Macché, quella non finisce mai.

Magari è solo l’impatto del rientro, magari no, avrò tempo per rifletterci. Anche perché Andrea sta ripartendo per la Cina, per un anno, e di conseguenza le serate rievocative dureranno meno. Anche lui mi sa che ha chiuso un ciclo, giusto in tempo per riaprirne un altro, molto molto interessante. Mi mancherà un bel po’. E gli altri? Il Penny ha già detto che va a fare capodanno alle Canarie, che deve lavorare lì l’1 il 2 e il 3. Marco deve ancora tornare dalle altre vacanze e so che, tra i miei impegni, i suoi e quelli del Penny sarà impossibile riuscire a trovare un momento in cui vederci tutti insieme. Forse accadrà in corrispondenza di qualche allineamento di pianeti o solo nel breve spazio dell’alba o del tramonto, come in Ladyhawke. O forse creeremo un appuntamento speciale per una videoconferenza ricca di puttanate con Andrea, sperando che abbia internet laggiù, e stando attenti al fuso che lì son 6 ore avanti.

Insomma, non lo so dove ci porteranno le nostre strade, quelle intraprese prima del viaggio e quelle che intraprenderemo dal nostro ritorno, non lo so proprio. Ma sono tranquillo e molto sereno, perché ho con me la consapevolezza e la sicurezza che le nostre strade, qualunque esse siano e con qualunque mezzo e compagnia decideremo di percorrerle, torneranno ad incrociarsi più e più volte.

Perché siamo amici, abbiamo condiviso un’esperienza molto più grande di un “semplice” giro on the road degli USA e, soprattutto, perché son convinto che il nostro viaggio insieme non è ancora finito, ma prevede ancora molti molti molti milioni di miglia da percorrere tra cazzate e discorsi seri. Magari a bordo dell’Ammiraglia Lisa Chinaire Lisette Grey. Forse non essenzialmente lei, forse un’altra, ma è meglio fosse lei (cit., che Lui ancora non l’avevo citato).

Sì però, ragazzi, stavolta col cazzo che la reggo la vuvuzela, al primo sbuffo te la piego!

‘nuff said (per ora!)