Alla fine ci siamo fermati a Mexican Hat, un paese formato da un benzinaio con autogrill, due motel e un ristorante. I motel sono pieni ma il ristorante è invitante. Specialità: carne alla griglia. C’è un anziano cowboy alto un paio di metri, cotto un po’ dal caldo un po’ dall’età che si occupa di grigliare.

Il barbeque è abbastanza fuori dal comune: un vascone mettallico delle dimensioni di un tavolo di biliardo pieno di brace e ceppi accesi, sopra dondola la griglia appesa con delle catene ad un’asta metallica. Una sorta di amaca per cuocere la carne. Il cowboy mansa avanti e indietro la griglia e gira bistecche e fette di bane a mani nude. Usurato dagli anni di griglia, anche quando cammina dondola un po’. O forse è l’alcol.

Andrea, Camilla e Penny decidono di ordinare una bistecca (una in tre), io e marco invece ci nutriamo di frutta e birra. A fine cena, a turno, usiamo il bagno della griglieria per tutti i nostri bisogni… intendo proprio tutti. Finita la cena è troppo tardi per spostarci in qualsiasi posto. In questa zona i motel delle grandi catene sono rarissimi e i paesini, agglomerati di baracche e benzinai, sono molto distanti tra loro. Decidiamo di dormire in auto, è l’unica possibilità! Tiriamo a sorte per decidere chi dormirà dove. Due serie di bigliettini, una con i nomi, l’altra con il posto. Io capito posteriore destro, che è il mio posto preferito.

Faccio un cuscino avvoltolando la giacca nell’asciugamano, mascherina e buonanotte. Devo ammetterlo, alla fine ho dormito abbastanza bene. Certo, stamattina avevo una gamba completamente morta, un pezzo di carne che ci ha messo un bel poì prima di tornare mio. L’autogrill del benzinaio ci ha fornito un bagno e una colazione. Poi conci così, un po’ assonnati, senza doccia e con i vestiti di ieri, ci siamo messi in viaggio verso il 4 corners monument, ovvero il punto di incrocio di quattro stati: Utah, Arizona, New Mexico e  Colorado.

Ci mettiamo un po’ ad arrivare, facciamo un giro per i negozitti di souvenir degli indiani d’america (che tristezza) e poi foto di rito all’incrocio degli stati. Diciamocelo, ‘sta cosa è una vera puttanata. No, meglio, una “americanata”, pagata ben 3 dollari a testa. Vabbè, dovevamo mettere la spunta, e l’abbiamo messa: checked, ora si va alla Monument Valley. Un’ora e qualcosa di strada.

La Monument Valley è gestita dagli Indiani, il nostro pass da 80 $ per la visita dei parchi nazionali non vale. 5 dollari e si entra. Il giro si fa tutto in auto, da buoni Americanotti. Solo che la strada è il calssico sterrato rosso, stavolta pieno di buche! Per chi vuole c’è il giro sui pickup guidati dagli Indiani, ma noi ci affidiamo all’Ammiraglia Lisa Chinaire Lisette Grey, che già ha dimostrato di sapersela cavare tra buche e guadi in secca. Forse le buce sono più toste del previsto e tutta quella strada in salita con un bello strato di sabbia e l’auto davanti che quasi si ferma non sono il massimo, ma aggiungono pathos e adrenalina.

Come se ce ne fosse bisogno, in mezzo a quei mostri di pietra che spuntano improvvisamente dal suolo e disegnano strane geometrie, sempre un po’ in bilico. Gli altri ci vedono degli elefanti, cammelli e via dicendo, io e Marco solo blocchi di pietra. Vabbè, sarà il sole che ha dato alla testa ai più. Io comunque ogni due per tre colgo l’occasione per abbronzarmi un po’. Ci spostiamo da un punto di osservazione all’altro in auto, fermandoci solo per le fotografie. Riusciamo pure a tornare sani e salvi al centro informazioni e veniamo fermati da un Italiano che ci chiede se siamo riusciti ad arrivare in fondo con quell’auto.

Io lo guardo di traverso attraverso le lenti dei miei Ray-Ban (che a momenti rischiavo di non portar con me in USA): “Chiaro, certo che sì.” – “Ah, ma non serve un 4×4?” – “Guarda, noi ce l’abbiamo fatta tranquillamente con questa, c’è solo da stare attenti!”. Il tipo ringrazia fa per andarsene, poi nota la targa e fa “Ma venite da New York con questa macchina?” sorrisetto compiaciuto “Da Boston…” – “Ah, volete fare il coast to coast?” – “Sì, lo stiamo già facendo”. Penso che tra 4 giorni saremo in California, e il coast to coast vero e proprio sarà concluso, in 18 giorni o poco più, alla faccia dei miscredenti. Ci fa i complimenti e ci augura buona fortuna, ma non ne abbiamo bisogno, abbiamo un’Ammiraglia al nostro fianco.

Decidiamo che, dopo un pranzo frugale, è l’ora di ripartire verso in Grand Canyon e trovare un motel in quella zona lì. Abbiamo tutti bisogno di una doccia, di una dormita come si deve e di lavare i vestiti. Il problema è che le città sono poche e minuscole. Ci fermiamo prima in una delle classici agglomerati che sorgono sulle sponde delle higway. Questo è composto da: benzinaio, negozio di souvenir megagalattico, motel completamente pieno e baracche buttate a casaccio nei dintorni. Per arrivare passiamo attraverso il “painted desert” o qualcosa del genere, chè però a dispetto del nome è un deserto grigiastro di dune pietrificate. In lontananza la sagoma dell’avanguardia dei Tartari? Forse sì, forse no.

Comunque, motel “No Vacancy”, ci suggeriscono di proseguire a sud verso Flagstaff, prima vera cittadina dei dintorni. Ci rimettiamo in viaggio, in questo modo siamo anche più vicini al Canyon.

Arriviamo a Flagstaff attraverso uno scorrimento di paesaggio continuo, passando da deserto e trading post (negozietti di souvenir) a forseta in quota senza soluzione di continuità. Siamo di nuovo intorno ai 2000 metri, la vegetazione si fa fitta e rigogliosa, ci riallacciamo alla Route 66 e scorgiamo la sagoma di un SUper 8. Stanza a 110 $ per notte, ma che signora stanza! 4 letti, di cui due queen size (i nostri matrimoniali, praticamente), bagno strafigo, frigo, microonde, macchina del caffe e l’immancabile caffè. Sticazzi!

Abbiamo guadagnato pure un’ora di vita, che siamo ormai entrati nel confine col Pacific Time, quindi siamo a -9 rispetto all’Italia. Facciamo un salto in centro, molliamo l’auto, esploriamo un negozio di souvenir e articoli da campeggio e poi cerchiamo un posto dove mangiare. Flagstaff è carina, una cittadina piccola ma viva, un sacco di localini, molti ispirati al mito della Route 66. E poi ha una particolarità: è costeggiata dalla linea ferroviaria lungo la quale passano circa 130 (centotrenta) treni merce al giorno, a velocità piena. Il segnale dei passaggi a livelli è imbarazzante, ma capiamo presto perché: i treni hanno tutti almeno 3 locomotrici e sono lunghi intorno ai 3 km, calcolo basato sul numero di vagoni presenti. Prova tu a fermare una massa del genere, follia.

In centro troviamo un posto dove mangiare, c’è un messicano dall’ambiente coloratissimo. Io ordino un burrito carico di carne, alla fine è da un giorno e mezzo che non faccio un pranzo sostanzioso, ma Andrea e Penny la fanno veramente grossissima. Ordinano “El Gordito Burrito”, uno a testa, c’è scritto che se lo finisci in 45 minuti ti regalano una maglietta. Sticazzi. Portano prima le altre portate, e poi i due mostri messicani. I camerieri indossano per l’occasione delle mantelline catarifrangenti gialle, con caschetto di sicurezza tipo quelli che si usano nei cantieri edili, e portano il piatto simulando il rumore delle sirene e avvisando tutto il locale che due pazzi hanno ordinato un gigante a testa.

Non bastasse questo, un super tamarro locale e la sua wakka ci guardano stupiti e cominciano a far cenni ad Andrea e Penny, ad incalzarli con quel tipico modo americano iperbolico di dire le cose “no, non ci credo, impossibile, non ce la fai!”. E invece sì. Penny ha anche un po’ di febbre ma cazzo si mangia tutto quel mostro. Un paio di bocconi li facciamo anche noi, ma pochissima roba. Andrea lascia solo il fondo, che proprio è colmo, ma comunque si è mangiato una sleppazza di fagioli, riso e carne avvolta da piadina. Pensare che due ciccionazzi americani ne hanno preso uno in due!

Il tamarro di prima ha gli occhi fuori dalle orbite, si sbrodola in complimenti e “anbelivebol”, quando la cameriera porta la maglietta omaggio al Penny, il tammarro ci tiene a stringergli la mano. Rispetto dai vitelloni locali, che cosa vuoi di più? Siamo integrati ormai, altro che viaggio, altro che avventura, qui siamo oltre. Tre zitelle trentacinquenni del tavolo accanto ci adocchiano e fanno commentini pensando di non esser sgamate, due cozze e poi la leader/trend setter un po’ più curata che fa la grand viveur. Solo l’eccesso di burrito in corpo mi impedisce di smerdarle, e poi c’è da fare la lavatrice.

Lasciamo Penny e Andrea a tornare in motel a piedi, 4 miglia circa, per smaltire tutto quello che hanno mangiato. Arrivati in motel io butto tutto nella lavatrice e mi piazzo a scrivere questo post. A breve l’asciugatrice avrà finito, giusto il tempo di rispondera ad una mail importante.

Ah, se vi state chiedendo che fine hanno fatto i riferimenti sessuali in questo post, sappiate che stiamo solo aspettando che arrivino quei due per andare a ripassare com’è fatto il lato B più bello del mondo. Solo due parole: Keyra Augustina. Questo, mi raccomando, cercatelo su google.

‘nuff said