Alla fine troviamo una “Affordable Inn” dove passare la notte. Fa un cazzo di freddo! Giusto il tempo di lavarsi, metter a posto due robe, sdraiarsi nel letto e… suona la sveglia.

Io però ho fatto la doccia per secondo, quindi prima di dormire ho anche il tempo per continuare a scrivere una cartolina e pensare al cielo stellato di poco prima.

Mi viene in mente come nessuno possa dire di esser sotto lo stesso cielo, neanche due innamorati che guardano il tramonto tenendosi per mano e sentendosi un’unica entità, nemmeno loro stanno guardando lo stesso cielo. Lui poi, ogni tanto, sbircia pure nella scollatura, quindi figurati.

Anche noi 5 lassù, in mezzo alla notte buia, tutti compresi nel raggio di qualche metro con gli occhi rivolti nello stesso punto, stiamo guardando cieli molto diversi. Ognuno ha i suoi pensieri, io ne ho pochi, quasi zero, sdraiato sul bagagliaio dell’Ammiraglia Lisa Chinaire Lisette Grey, lascio che l’universo mi cada dentro, nel silenzio.

Quando alle 5.15 suona la sveglia, non scatto come una molla. Anzi, spengo, e lascio che siano gli altri a scattare. Per fortuna guida prima il Penny, io sono in coma. Se ieri mattina mi sono impegnato per dormire, oggi crollo come la più classica delle pere cotte. Mascherina, iPod, appoggio la testa al finestrino e… buonanotte, chi si è visto si è visto.

Faccio un microrisveglio quando l’auto si ferma perché gli altri vogliono fotografare il panorama, io sbircio con gli occhi semichiusi da uno spiffero della mascherina: bello, bello, bellissimo. Sì, buonanotte.

Se ieri mi son svegliato ascoltando “Bevo” dei Ministri, e una strana voglia di superalcolici e sesso nel bagno di un locale, oggi riemergo dal mio viaggio onirico grazie a “Take me to the river”, dei Talking Heads. Sono assetato e ho una irrefrenabile voglia di pucciare la testa nell’acqua e fare le bolle: brrlrrlbbllbllvlvlrllr.

Facile no? in uno dei parchi più secchi dei dintorni! Comunque mi sveglio appena in tempo per l’ingresso al Natural Arches National Park, dove il solito stradone di asfalto si snoda attraverso meraviglie scolpite da vento, acqua e sbalzi di temperatura.

In particolare in questo parco si trovano numerosi archi naturali in roccia, come quelli che fai quando scavi una buca al mare, e dall’altraparte qualcuno scava un’altra buca e poi decidi di unirle. Solo che qui son di roccia, molto più grandi, sempre rosse e durano un po’ di più… ma neanche tanto.

Ci facciamo lo stradone fino in fondo e poi a piedi a vedere 4 o 5 di questi archi. Siamo arrivati presto, ma al solito ci fottono le distanze da percorrere a piedi. Ovviamente tutto è organizzato in sentieri recintati, guai ad uscirne fuori, che rischi di calpestare la “crosta crittorganica” o qualcosa del genere, ovvero terriccio con batteri, licheni e funghi. Guai a te se ci provi!

I primi 3 archi sono very easy da raggiungere, ci sentiamo fighi e decidiamo di raggiungerne altri due. Solo che qui c’è da scarpinare, la pendenza sale, comincia un po’ di “off road”, passaggi su pietroni levigatissimi coperti da sabbia rossa finissima, che si infila ovunque e rende tutto scivoloso.

Ho modo di apprezzare le prestazioni delle mie All Star ormai cotte anche qui, sono delle ATS, All Terrain Shoes. A furia di scarpinare non i rendiamo conto dell’orario, è già quasi mezzogiorno, il sole è a picco. Devo dire che nella mia vita ho sopportato temperature maggiori, ma qui credo sia tutto mitigato un po’ dalla quota, un po’ dal venticello, un po’ dal fatto che il clima è secco.

Questo non impedisce però agli UVA e UVB di fare il loro lavoro con maggiore intensità, io mi piazzo a torso nudo per prenderli tutti, voglio arrivare in California scuro come una prugna Sunsweet, ma non così raggrinzito, perciò ci dò dentro con l’acqua. Lo svantaggio di andare a torso nudo è che non hai il collo della maglietta a cui appendere gli occhiali, dovrò procurarmi il pezzo sopra di un bikini, anche per motivi contenitivi, anche se però mi scazza abbronzarmi col segno del costume. Niente, meglio il topless, gli occhiali li tengo su.

Comunque il sole picchia forte sulle nostre teste, moltiplicando il rateo di cazzate al secondo, si finisce ovviamente a parlare di pornostar con gare e record annessi e connessi.

A proposito di prugne secche, decido che oggi è il giorno depurativo, devo ancora digerire la robaccia di ieri sera. Oggi niente porcate e dieta a base di prugne secche e acqua, sai che depurazione?! Niente merda in ingresso, solo tanta cacca in uscita.

Ci fossero almeno i corn flakes e le noci, ieri abbiamo spazzolato tutto e qui trovare un negozio di alimentari non è così facile… d’altra parte uno dei centri più abitati ha 750 abitanti! Molto più facile trovare negozi di souvenir idioti, ma con quelli non ti sfami. Io non bevo caffè da due giorni, vado avanti coi chicchi, ma con parsimonia, razionando le dosi.

Data la scarsità di tutto, stiamo pure meditando di acquistare una tanica di benzina di riserva, per affrontare con un po’ di tranquillità in più le vaste distese di deserto più o meno secco, ma sicuramente disabitato, che ci separano da Las Vegas. Prima però ci sono altri parchi di mezzo.

Nel pomeriggio, dopo la pausa benzina, cambio guida e pranzo. Per fortuna troviamo un City Market in cui comprare un po’ di frutta fresca e abbuffarci di verdure. Mangiamo accampati fuori dal centro commerciale, io ho una libbra e quindici di verdure, peperoni, cavolfiori, broccoli, piselli, cetrioli, qualche fagiolo, di tutto, purché verdura. E l’immancabile yogurt, la flora intestinale ringrazia.

Una volta nutriti a dovere ci dirigiamo al Natural Bridges National Park, che è praticamente deserto. Ci arriviamo dopo il solito su e giù con qualche bel curvone, il parco è praticamente deserto, ma merita. Ospita tre ponti naturali, scavati dal fiume nella roccia bianca, levigata e piatta sopra, ricamata dai segni dell’acqua lungo i fianchi.

Il primo ponte, il Sipapu, è il secondo più grande del mondo, una volta sacro per le tribù locali e la cosa bella è che puoi scendere a piedi fino alla base. Mettiamo alla prova la nostra paura del vuoto, il nostro senso dell’equilibrio e la tenuta delle scarpe, discendendo di un bel tratto, ma non fino alla base per motivi di tempo. C’è anche un passaggio su una scala a pioli di legno, appoggiata alla roccia: fighissimo.

Passiamo a fotografare gli altri due archi, ma ci rimettiamo presto in auto perché ci aspetta un bel tragitto: dobbiamo imboccare l’Highway 261 che è tutta bella dritta, ma all’improvviso tutta quella drittezza è interrota da una serie di tornanti non asfaltati e pendenza del 10%. Subito prima e subito dopo i tornanti, due deviazioni panoramiche.

Ci mettiamo in viaggio, la radio passa musiche tribali indiane, persino l’annunciatrice parla in una lingua a noi ignota. All’imbocco della 261 una serie di cartelli mette in guardia sui pericoli dei tornanti più avanti e vieta l’accesso ai mezzi pesanti.

L’highway è la solita striscia d’asfalto con ai bordi il nulla e prosegue dritta come un fuso, c’è solo un continuo su e giù. Dopo una 40ina di miglia circa, riappare il cartello con l’indicazione e subito prima, quello per la deviazione verso Muley Point, primo punto panoramico.

Giro a destra, imbocchiamo una strada sterrata: un serpentone di sabbia rossa che sale verso l’ignoto, contornata da arbusti bassi bassi, secchi ma verdissimi. Alla nostra destra il sole inizia a calare dietro le montagne, che hanno quella forma tipica dei fumetti di Tex: vengon su dal nulla, drittissime, e in cima sono piatte. Segno che una volta la pianura era lassù e tutto è stato scavato intorno.

La strada non è particolarmente impegnativa, qualche buca, dunette su e giù, sabbia rossa a profusione, davanti non si vede un’arrivo perché la strada è abbastanza in pendenza, vediamo solo sabbia rossa e cielo.

Proseguiamo così per una quindicina di chilometri, in attesa che qualcosa cambi davanti a noi. Niente, solita terra rossa e arbusti e, cazzo guarda lì, quello spiazzo, siamo arrivati!

Finalmente la strada si allarga davanti a noi, lasciando posto ad uno spiazzo in ghiaia e grosse pietre levigate. Gli arbusti si fanno più alti e radi, noi scendiamo dall’auto e ci accorgiamo di essere in cima al mondo.

No, letteralmente, abbiamo il mondo davanti ai nostri occhi. L’euforia si placa solo alla vista dello strapiombo sotto ai nostri piedi, ma che spettacolo abbiamo davanti ai nostri occhi? Ora vi chiedo uno sforzo di immaginazione, io non sono bravo con le descrizioni, voi farete fatica, impegnatevi.

Davanti a noi, appunto, il mondo, nella sua forma più pura. Il mondo nel senso: il pianeta Terra, che da quassù sembra un pianeta ancora inesplorato, come se noi fossimo i primi arrivati da un lungo viaggio interstellare e scoprissimo per la prima volta tutto quello che ci si para davanti, un pianeta sconosciuto e mai visto, nemmeno in foto.

Il panorama è amplissimo, non è possibile racchiuderlo tutto nel campo visivo, bisogna proprio girarsi, siamo circondati.
Sotto di noi, molto molto sotto di noi, partono una serie di altopiani, verdi e piattissimi. Però separati da profondissime gole, scavati da un fiume che una volta era molto largo e ora invece è un rigagnolo che scorre laggù, all’ombra scurissima degli altri isolotti verdi, quasi invisibile.

Un arcipelago verde, ma svuotato del mare, puoi vedere gli strati che compongo i terrazzamenti che dalla base larga salgono su, fino allo spiazzo erboso perfettamente piatto. Le gole giocano con la luce del sole formando ombre profonde e scure che contrastano con il verde delle cime. Uno spettacolo. Ma non finisce qui, ovviamente.

Dopo i primi isolotti, la pianura, o meglio l’altopiano, si fa compatto e il verde procede piatto e senza increspature per miglia e miglia, potresti dire all’infinito se non fosse che, all’improvviso, precisamente dal nulla, lo sguardo verso l’orizzonte è stoppato dall’ascesa subitanea delle rocce della Monument Valley. Cazzo, incredibile, lontanissimo e di botto, spuntano dalla terra questi roccioni.

Spaziando con la vista il panorama continua a regalare sorprese, tra le tipiche montagne già descritte prima e altri monti completamente diversi, tondi, sembrano enormi colline. Wow, questi giganti si ergono nel vuoto della pianura verde, così un po’ a caso. Ogni tanto anche altre strutture diverse, a piramide con in cima qualche pietra impilata, chissà da quant’è che stanno lassù.

Anche se non siamo sazi (come fai ad esser sazio di quella roba?) decidiamo di esplorare l’ambiente in cui ci troviamo, completamente diverso dal resto. Se infatti davanti a noi predominano rosso e verde, noi siamo in mezzo al grigio, circondati da grandi massi lisci, testoni di elefanti semisepolti ere geologiche fa. Scopriamo che oltre agli arbusti e ai sassoni, ci sono anche delle pozze, probabilmente piovane, e anche uno stagno più grande.

Decidiamo di tornare indietro, caricati da quella visione. Come puoi preoccuparti per qualcosa dopo aver visto quel panorama? Cosa può fermarti, cosa potrà mai innervosirti o stressarti, se sai che nel mondo esiste ancora un posto come quello, dove puoi andare a rifugiarti col pensiero ogni volta che vuoi e ritrovare la pace del silenzio, del vento, del fiume che scava lento, della pianura a perdita d’occhio interrotta solo ogni tanto da appigli per la vista, per evitare che le pupille vaghino troppo e scongiurare la possibilità di esser sopraffatti da tutto quell’indeterminato spazio di fronte.

Nel tornare vediamo una carcassa di mucca morta sulla strada: ossa bianche esposte al vento, ricoperte dalla sola pelliccia, segno che qui la natura è ancora meno ospitale del previsto. Visione di morte violenta, ma naturale, presagio funesto? Boh, ci avviamo verso i tornanti.

Pensavo peggio, c’è un po’ di strizza per il precipizio di fianco, ma si va giù abbastanza tranquilli, nonostante la ghiaietta infida. Arrivati giù, tiro un sospiro di sollievo, ma dura poco. Inizia la deviazione verso la Gods Valley. Una trentina di km di sterrato.

Allora, dovete capire che noi non siamo su una Jeep o un SUV o un pickup, ma su una berlinona americana lunga quasi sei metri, con quasi un metro di sbalzo anterio e molto di più al posteriore. Inoltre siamo su in 5, con bagalgi, l’assetto è decisamente basso e impennato, poco adatto all’off-road. Ma cazzo, hai appena visto il mondo stendersi ai tuoi piedi, e una vacca morta, non puoi più aver paura di nulla!

Poi il panorama è spettacolare: tramonto dai colori vivissimi, cielo limpido che di più non si può, circondati da un lato da pareti di roccia rosso fuoco, dall’altro dalla pianura, interrotta qua e la da immense piramidi di roccia, sovrastate da quelle che sembrano sculture plasmate da mani giganti, masso sopra masso.

La strada è di terra rossa, soliti arbusti verdi ai lati, ma stavolta è bella impegnativa. In alcune salite  vedo solo il musone dell’Ammiraglia Lisa Chinaire Lisette Grey davanti a me e poi il cielo. La strada non si vede, devo aspettare di scollinare, questo mette un po’ d’ansia.

Alcuni passaggi sono proprio al limite, in uno passiamo al pelo di fianco alla strada mezzo franata, un paio di volte invece raschiamo il fondo, non c’è nulla da fare. Per migliorare la visibilità Marco si mette fuori dal finestrino, quasi in piedi sul sedile, a far da vedetta.

Dopo un’ora così, arriviamo a riallacciarci alla highway. Cazzo che avventura, che adrenalina! Siamo carichissimi, sia per il percorso in sé, sia per il panorama spettacolare che abbiamo visto. Cioè, ma chi li fa dei viaggi così? All’avventura proprio, c’è anche andata di gran culo! Purtroppo arriviamo alla prima città alle 21 passate, tutti i motel e le inn sono piene, No Vacancy.

Mi viene in mente il cartone di “Pippo va in vacanza”, quando cerca un posto per dormire: “Tutto pieno, tutto pieno, tutto pieno… ehi, quello è vuoto!”. Solo che noi quello vuoto non lo troviamo, nemmeno cambiando paesello. Probabilmente questa sera (non) dormiremo in auto, magari in un posto dove apprezzare uno splendido cielo stellato.

Ora scrocco il WiFi a qualche baretto e vi invio questo resoconto di una giornata spettacolare. Avreste dovuto esserci, raccontato non rende abbastanza. Poi spero di trovare un posto dove dormire, altrimenti che auto sia.

‘nuff said